Armando si guardò dritto negli occhi riflessi dentro lo specchio dello scadente b&b portoghese prenotato di fretta; non aveva mai tempo per ponderare le sue decisioni. Forse, a 41 anni, sarebbe invece iniziato a diventare conveniente farlo. Se non altro per i dolori di schiena che, dopo una sola notte su quel letto di fortuna, già sentiva e che si sarebbero trascinati per un po’.
Un tempo, il rumore della movida e il ronzio delle zanzare, assieme con il loro mordicchiare, non sarebbero stati un gran disagio. Sarebbero bastate poche ore di sonno e l’alcol trangugiato avrebbe attutito i suoni, quando addirittura non annullati. Ora non era più così. La testa faceva male per i bagordi altrui.
Uscendo dal bagno in condivisione incappò in una nordica sulla cinquantina, grassoccia e serena. Si chiese quale fosse il segreto di tanta freschezza e questa domanda restò a vagare nell’aria, come il fumo della sigaretta che si sarebbe fumato di lì a poco, decidendosi sul come ingannare il tempo, in attesa dell’orario in cui s’erano dati appuntamento lui e João.
Non tornava a Porto da 17 lunghissimi anni. Quella città gli costava fatica, gli rinfacciava i progetti non realizzati e, a dire il vero, nemmeno troppo perseguiti. “Porto addosso le ferite di tutte le battaglie che ho evitato.” Lo scrisse Pessoa e glielo ricordava la Livraria Lello, con il suo stile liberty gotico, dove un tempo sognava di firmare copie dei suoi manoscritti e oggi non aveva più nemmeno la pazienza di mettersi in coda per rivederne gli interni, essendo la libreria ormai imperdibile meta d’attrazione turistica. Glielo ricordava il Ponte de Dom Luiz I, dal cui piano inferiore più volte s’era gettato nel Douro, per impressionare le ragazze, i passanti e alle volte con João anche più semplicemente per rischiarla tutta, per sentirsi non solo belli, ma anche immortali.
In questo momento lo stava attraversando, quel suo ponte, un piede davanti all’altro e nemmeno in velocità. Si scoprì tuttavia provare lo stesso una vertigine, guardando giù, guardando dal primo piano del Luiz I l’acqua che correva quasi avesse caldo anche lei, quasi volesse raggiungere l’oceano. “Ma chi diamine me l’ha fatto fare…”, disse fra sé e sé. Infatti la risposta era tremendamente chiara: l’inevitabilità di liberarsi da quella promessa.
Mentre i gabbiani garrivano senza tregua, raggiunse Vila Nova de Gaia: era ancora relativamente presto per iniziare a girar le cantine come fosse un visitatore della prima ora. Scelse quindi di arrampicarsi fino alla Serra do Pilar, e di ammirare da lì Cais da Ribeira, che, anche 17 anni dopo, regalava ancora grandi emozioni, con la sua indolenza, con il suo somigliare a un gatto: sornione e bastardo, ipnotico e ruffiano.
Si accese la terza sigaretta dalla sveglia, ragionando su quanto aspirasse per proteggersi dall’ansia. Pensò a Carolina, l’unica dei suoi incontri che non si era mai espressa al riguardo del suo tabagismo, e gli si formò un’espressone affettuosa in volto. Sicuramente, in quel momento, sarà stata per le strade a ridosso della città, a cercare cani abbandonati.
Sempre eroina delle cause perse, lei. Perennemente impegnata a cambiare qualcosa che sarebbe potuto funzionare meglio, a salvare vite, innaffiare fiori, concimare piante. Carolina, col suo vestito viola, i suoi capelli legati male e il suo sorriso radioattivo. Sempre serena, lei. Sempre accomodante, generosa, gentile.
Chissà se un giorno avrebbe sparato a un bambino, fingendo di mirare a un piccione. Chissà se avrebbe urlato fuori tutto quanto certamente covava nell’anima; già, l’anima: quel soffio vitale racchiuso tra le sue due braccia muscolose perennemente abbronzate e il suo paio di gambe tozze, ma sensuali.
Armando era certo che tutto quel suo affaccendarsi celasse la paura di scoppiare, che Carolina non voleva permettersi e bruciava nel movimento. Terrore di esplodere, lasciando tutti sorpresi, o forse nemmeno troppo, perché prima o poi anche le persone buone hanno un crollo, si sa. Si sa anche che è in quei momenti che tutti gli altri devono provare veramente timore, forse per la prima volta, perché se hanno un crollo le persone sempre presenti, quelle date per scontate, significa che ci si deve rimboccare le maniche e sostituirle.
Armando non osava immaginare se fosse deflagrata Carolina cosa sarebbe successo in paese, dove per un motivo o per l’altro erano tanti quelli a dipendere dalla sua energia. Non gli aveva mai posto un rimprovero, quella donna con la faccia da ragazzina. Era indiscutibilmente lì, con la sua risata fragorosa a ogni ritorno.
Mai una domanda. Mai un “dove sei stato?”, mai.
Eppure non pareva vittima, succube e, soprattutto, non sembrava scema o accondiscendente. Non pareva nemmeno amarlo. Anzi, certamente non l’amava. L’ascoltava, senza rendere chiaro quel che cercasse in lui.
Cosa voleva, in fondo, Carolina? Nemmeno pareva divertirsi particolarmente, nelle loro serate. Se ne stava lì, seduta sulla sedia di legno, con il vino rosso in una mano, a toccarsi i piedi con l’altra, ad aspettare il momento che il rituale e l’amplesso accadessero, per poi invitarlo all’uscita. Forse lo vedeva come l’ennesimo cane da salvare o forse, come affermava lei: “Di cuore, Armando, ne abbiamo solo uno. E il mio è come un orologio. M’è caduto un paio di volte. Ora batte, come le lancette che continuano a ticchettare a vuoto, ma non funziona più”.
Chissà, forse Carolina aveva meno bisogno di lui di quanto lui ne avesse di lei, e anche questo, mentre per un’associazione di idee data dagli orologi gli tornò in mente quello splendido della stazione Sao Bento, gli provocò una strana fitta e lo obbligò ad accendersi un’altra sigaretta. Professava di vivere alla giornata, ma gli scocciava incontrare i suoi simili, perché avere un valore per qualcuno che andasse oltre il piacere squisitamente e unicamente edonistico gli ricordava la sua infanzia e quei legami indissolubili che porta con sé, quando si è fortunati. E lui sì, lo era stato.
Ora il sole batteva caldo sul marmo e così Armando decise di alzarsi e di dirigersi verso Palacio de Cristal. Avrebbe proseguito nel cammino, non aveva intenzione di avvalersi di mezzi pubblici. Voleva assaporare tutta la saudade, anche perché dopo l’incontro con João avrebbe preso il primo aereo e via, di nuovo nella frenesia di quel che è urgente, ma non importante. Ancora poche ore dal sapore dolce amaro. Quel viaggio era stato inevitabile, gli faceva male, ma ora che ci ballava dentro non aveva altro desiderio se non quello di farsi male fino in fondo con la malinconia.
Un po’ come quando si ordina un piatto di baccalà fritto che non finisce più, ma devi mangiarne ogni patata unta del contorno, perché qualcosa dentro di te ti indica che non puoi sottrarti, altrimenti sceglievi un’insalata sin da principio.
La sua bulimia esistenziale e intimista in questo istante stava avendo la meglio, e sui gradini di Se Catedral decise di fare un’altra pausa, che pareva un ossimoro, ma in realtà era un altro fare spazio al pensiero: doloroso e incombente.
La mente ritornò a quando in quel posto, osservando i tetti di tutta Porto, aspettava João, sempre senza la certezza che sarebbe arrivato. João era il più anarchico, dei due. Il più deciso, quello che non si abbandonava ad alcol o fumo, che definiva oppio dei popoli moderni e che non si lasciava andare nemmeno al sesso occasionale. Sorrise, immaginando una discussione politica tra João e Carolina. Lui granitico, contrario alle mediazioni. Lui, che scavalcava i cancelli del CAR di Bobadela e si faceva incatenare, sperando che queste fossero azioni in grado di risvegliare le coscienze sopite di chi si professava per un altro tipo di immigrazione, ma non ostacolava con la propria carne il macello del sistema esistente. Lei, che metteva in discussione anche i cucchiaini di sale da buttare nell’acqua per la pasta, che organizzava assemblee condominiali pure per decidere il colore delle cassette per la posta. Così diversi, eppure in fondo più simili tra loro che con lui.
Si passò la mano destra sul mento rasato male e rifletté sul fatto che ciò che li accomunava distanziandoli da lui fosse un’attitudine di non resa nei confronti della vita. João prendeva porte a spallate, Carolina tentava di infilare la sua chiave in ogni foro del legno, benché potesse non avere la minima sembianza d’una serratura, e Armando invece nulla. Restava lì, davanti alla porta chiusa, a rammaricarsi del fatto che non fosse aperta, ma non tentava più di modificare lo status quo. Non quello mondiale. Non quello nazionale. Non quello della sua camera da letto.
Incapace di star solo, si circondava ciclicamente di soggetti da invidiare, o di qualche donna adorante, giusto il tempo per non sentire quel morso, per non provare anche di giorno quell’angoscia che l’attanagliava la notte.
Sentì le campane suonare e decise che era ora di proseguire per Palacio de Cristal, anche perché avrebbe voluto “prenderla larga”, sfiancarsi un po’, per non rischiare di cedere all’emozione nel rivedere l’amico; voleva stancarsi al punto da vivere l’istante in maniera meno intensa. João magari non sarebbe comparso, ma se fosse stato presente, certamente non avrebbe tardato di un secondo. O tutto o niente. E rigorosamente vestito di nero.
Scelse di attraversare Rua Santa Catarina, per stordirsi col chiasso dei negozi e con la voracità dei consumisti, dei turisti, di tutti quelli che tra un azulejos e un bikini firmato avrebbero posto la loro attenzione sulla seconda attrattiva.
Lo scelse per quel bisogno molto radical di sentirsi almeno migliore di qualcuno, secondo la sua personalissima scala di valori. Non venne deluso, e anzi tutte quelle vetrine con CristianoRonaldo ritratto in qualunque forma e posizione lo fecero sentire immaginariamente parte di un élite intellettuale e attivamente critica sui giornali, per quanto da anni la sua unica occupazione fosse quella di svolgere lavoretti occasionali e sicuramente non impegnati, forte dell’eredità immeritata lasciatagli dalla sorella di sua madre.
Faceva marchette, scriveva pezzi promozionali per una ditta di sughi in scatola ogni qual volta la stessa riuscisse ad avere l’intuizione di mescolare la salsa di pomodoro con qualcosa di nuovo; il che accadeva un paio di volte l’anno, nei periodi di massima creatività.
Si trascinava così da una pseudo relazione sentimentale all’altra, da un bar all’altro. Senza impegno. Senza un piano. Senza nemmeno grossi argomenti da discutere con gli altri, che lo ridussero lentamente in uno stato di totale autonomia e indipendenza, disumanizzandolo non poco.
Quando la vita ti presenta svariate possibilità, grazie allo sviluppo tecnologico dell’epoca, ai soldi e a una bellezza congenita, perché progettare? Perché limitarsi da soli le infinite possibilità? In nome di quale impegno, di quale scopo, di quale senso? Non era forse falsa la speranza di incidere in qualche modo sulla vita degli altri, e pure sulla propria, essendo così schiacciati da un ingranaggio malsano e più grande detto “sistema”, dal quale era necessario in qualche modo salvarsi o sopravvivere, non potendolo modificare?
Mentre si poneva queste domande Armando arrivò alla destinazione prestabilita per l’appuntamento con l’amico dei tempi dell’università.
Eccolo lì, all’ingresso del parco, con alle spalle il cartellone pubblicitario del festival jazz che si sarebbe tenuto di lì a poco in città. 17 anni. 17 lunghissimi anni dividevano l’immagine di un João coi capelli folti e rossi, orecchini d’argento a cerchio a entrambi i lobi e il João di quel giorno, completamente rasato a causa di un’evidente calvizie e con di rossa solo una lunghissima barba, in antitesi con la testa pelata.
Eccolo lì, con l’occhialino tondo da intellettuale, una maglietta nera a maniche corte e un paio di jeans dello stesso colore. Sempre nero, e solo leggermente più elegante dei tempi in cui, per loro, il Douro era gestibile come una boccia d’acqua per pesci rossi.
Si guardarono negli occhi. C’era qualcosa che li tratteneva dall’abbracciarsi. Armando si domandava come lo trovasse João, che a lui pareva adulto, ma non diverso. João che aveva superato lo sturm und drang: si vedeva proprio dallo sguardo, il quale comunque conservava del fuoco, delle scintille, per quanto non inquiete, ma fisse e chiarissime.
Il compagno, a seguito di un momento di sorpresa a sua volta – cosa stava pensando? L’aveva forse deluso, con il suo aspetto stanco? – scoppiò in una risata sguaiata e lo abbracciò talmente forte da ricordagli che cosa l’avesse spinto in realtà fino a Porto: il desiderio di sentire che qualcosa resta, nonostante le crepe, nonostante la triste deriva, nonostante l’aver combinato nulla. Qualcosa di inspiegabile, di duro, di indissolubile. Qualcosa che è bello che non abbia un nome, perché così lo si lascia appartenere alla sfera del mistero, dell’inspiegabile, del divino.
“Allora?! Perdio, maledetto il mio italiano, dove sei finito in questi anni?”, disse João, con quel fare canzonatorio con cui guidava i cortei. “A marcire bene, direi”, rispose Armando abbassando lo sguardo, timoroso di rammaricare con qualsiasi affermazione l’amico, che nei suoi momenti di presenza, tra un’azione sovversiva e l’altra, non mancava mai di cercarlo, di invitarlo a un ritorno. “Spostiamoci da qui. Di pavoni che scorazzano nel parco ce ne sono abbastanza, i villeggianti non hanno bisogno anche del nostro, di ego smisurato. Ti porto in Vila Nova de Gaia. Ci facciamo qualche bicchiere, niente di che”, aggiunse sferrandogli un piccolo pugno nello stomaco.
Armando non si azzardò a contraddirlo, perché come sempre João esercitava su di lui un gran fascino, e perché probabilmente un goccio di alcol in corpo gli avrebbe concesso di esprimersi con meno vergogna.
L’amico portoghese lo caricò sul retro del suo motorino. Armando lo abbracciò e affondò il naso nella sua schiena nerboruta, quasi a ricercarne l’odore conosciuto di una pelle spessa. Lo ritrovò, quell’odore selvatico mescolato alla fragranza di limone con cui lavava i suoi capi dai tempi della Comum.
Arrivarono alla loro cantina preferita. Ordinarono due porto bianchi e João come sempre lo affrontò di petto: “Quindi, me lo dici cosa sei venuto a fare a Porto?”, e rise forte, consapevole di averlo infamato venti minuti prima proprio per la sua prolungata assenza. Armando voleva rispondere la verità: “Sono venuto per sciogliere la promessa”, ma non lo fece. Sotto un certo punto di vista aver incontrato nuovamente l’amico di sempre gli aveva fatto provare vergogna anche solo per averlo pensato, che poteva mollare il progetto. Si rollò dunque una sigaretta e rispose: “Per ascoltare a che punto sei tu.”
João allora bevve alla goccia il liquore che restava nel bicchiere, posò lo stesso e guardò per un attimo il raggio di sole che colpiva il vetro, riflettendovi l’immagine di una Porto sognata, e quasi profumata d’arcobaleno ed uva.
“Sono cambiato, Armando. Non voglio usare la parola cresciuto perché sai come la penso con le classificazioni e le idee di progresso, però ammetto di non aver più bisogno dell’adrenalina donchisciottiana. Degli amori platonici, della tragedia per sentirsi protagonisti almeno di qualcosa, della fama, delle rincorse senza fiato. Verso cosa, poi! Mi sono stancato. No, non guardarmi così. Non pensarlo nemmeno. Certe abitudini non variano, anche se si modifica il modo d’affrontare il contesto in cui esercitarle. Lo si osserva da terra, quel che succede, perché si è stremati sul pavimento, è inutile negarlo, è evidente a tutti. Non siamo stati capiti, non siamo riusciti a spiegarci, mettila come vuoi, ma abbiamo perso, anche se io le mani in alto non saprò mai alzarle”.
Mentre lo diceva, involontariamente si sollevò la manica sinistra della maglietta, dato che sentiva il bisogno di grattarsi, e Armando notò la cicatrice di quello scontro avvenuto al G8, quando ancora non si conoscevano e dove lui non era stato, ma che João gli raccontò più e più volte, aggiungendo che fu solo un caso fortuito che non avesse deciso di dormire alla Diaz.
“Sono diventato invincibile, Armando, nella mia sconfitta che ha le sembianze d’essere totale, ma che in realtà mi ha trasformato in una sorta di super eroe. Un po’ come accadde a Enzo nel film “lo chiamavano Jeeg Robot”, hai presente?”
E rise, come sua abitudine, quando non sapeva gestire le emozioni. “La vita ti rovina e non avendo più nessuna speranza da perdere, non avendo figli da abbracciare, mogli da rassicurare la sera, da invincibile il mondo mi fa meno paura e forse è la volta buona che qualcosa la rivoluziono, perché l’ho ammazzata, la paura” e mentre disse – ammazzata – girò le due mani in senso contrario l’una dall’altra, imitando il gesto con cui si tira il collo dei polli. “Non cerco più il consenso. Proseguo da lì – e indicò il pavimento – come una lucertola- verso il sole”.
Armando di contro tirò forte dalla sua sigaretta, che fu l’unica cosa che ammazzò, distruggendone il filtrino nel posacenere.
João aveva sempre costruito, anche se tendeva a sminuire il “fatto” in nome dell’immenso “da farsi”. Barricate, forme alternative del vivere, tavoli su cui imbandire cene per chiunque la pensasse severamente come lui.
João spendeva le estati a salvare i rifugiati che cadevano dalle loro barche nel disperato viaggio attraverso il Mediterraneo, sollevandoli con le braccia segnate. Carolina invece, con le sue abbronzate, raccoglieva cani; chi animali, chi uomini e Armando ebbe un brivido a pensare come si potesse essere arrivati a considerare bestie i nostri simili.
“Sono a questo punto qua, eppure il progetto non lo abbandono, Armando, non preoccuparti”, e mentre lo affermò ordinò un altro giro di porto e gli passò una mano sulla spalla.
“Piuttosto, tu te lo ricordi, cosa fosse il progetto, vero?”, e di nuovo sorrise. “Certo! La promessa di ritrovarci nel 2021 e partire insieme alla volta del Guatemala, per coltivare il caffè, insieme ai locali”.
João fece una smorfia “non esattamente, amico” e disse – amico – col suo fare ironico “insieme ai colleghi, mentre la sera scriverai i tuoi trattati, e io che non sono mai stato portato per le parole andrò sui monti a vedere se c’è dell’altro da fare.”
Strizzò l’occhio, per quanto più che uno scherzo, conoscendo João, questa suonasse come una minacciosa e ulteriore pianificazione.
Armando a quel punto si sentì stupido, preparandosi ormai l’ennesima sigaretta. Non c’era nulla da sciogliere e niente da abbandonare. Al 2021 mancavano pochi anni ed era certo che João, nel silenzio delle sue nottate solitarie, aveva già steso una mappa del tragitto, stilato un budget, immaginato un logo per la loro marca di caffè indipendente. Forse più che mollare c’era da ricominciare anche per lui, concluse.
“João”, disse con fare quasi imperativo, “dimmi”, ribatté l’altro. “Sono venuto qui per fare un tuffo. Sai, in Italia ci manca il mare…”
Brindarono in fretta con l’ultimo sorso rimasto nei rispettivi secondi bicchieri. Salirono rapidamente in sella a quello che João non avrebbe più potuto chiamare Ronzinante e arrivarono lì, al loro Dom Luiz I. Il portoghese si tolse rapidamente i vestiti, mostrando un corpo da statua Greca, a testimonianza che forse si trovasse meno a terra di quanto andasse millantando, e fosse in realtà ancora intento a fendere nebbia e oltrepassare inferriate. Armando invece si spogliò con meno irruenza, ma più che per pudicizia o imbarazzo, perché attento ad ascoltare quello che aveva ricominciato a farsi sentire, infrangibile come un sasso, all’altezza del diaframma. Non c’è niente da fare, pensò, qualcosa resta.
Senza vergogna alcuna prese la mano dell’amico, che non si fece problemi a stringergliela, perché ora come allora João aveva capito tutto, e ora come allora procedeva senza chiedere niente, ma fornendo all’altro tutto ciò di cui avesse bisogno. Salirono così legati sullo scorri mano del ponte, in piedi. Si guardarono e Armando vide un João ventenne e si immaginò da fuori di avere la stessa età. “Um, dois, três”, lo dissero insieme, di nuovo ora come allora. E poi più niente, se non un tonfo nell’acqua, profondo e bellissimo.
© Copyright 2018 Paola Vailati – text
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