NASCERE E’ UN ATTO POLITICO E FEMMINISTA

Sono passati una decina di giorni dalla terribile notizia del neonato morto all’ospedale Pertini di Roma, da cui è scaturita una discussione accesa, sul tema del post partum. Al pari di altre donne, ho letto tanti articoli, ascoltato diverse interviste, provato a immedesimarmi in ogni attore coinvolto nella tragica vicenda di cronaca; ho sperimentato uno sconforto sconfinato e ricordato le sensazioni con cui mi sono trovata a dover fare i conti nei primi giorni della vita di mio figlio.

Ebbene, più trascorre il tempo e più mi convinco che la questione del post partum abbia intrinsechi in sé due aspetti molto importanti e non considerati abbastanza spesso o con la dovuta attenzione: l’aspetto politico e quello femminista.

Come correttamente sottolineato dalla straordinaria Silvia Vaccari, presidente della Federazione nazionale degli Ordini della professione di Ostetrica: “temo che alcune delle situazioni segnalate [dalle molte donne che hanno deciso di condividere la loro esperienza dopo l’accaduto] vengano a crearsi con più facilità in grandi ospedali e in realtà dove non ci sono risorse e manca il personale. Se un professionista si trova a gestire venti mamme e venti bambini, avrà maggiori difficoltà ad ascoltare e cogliere, ad esempio, tutti i segnali di un malessere.” (cit. da: https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/01/28/parto-la-presidente-delle-ostetriche-descrive-la-gestione-del-rooming-in/6952290/). Impossibile darle torto, impossibile non rimarcare la necessità di una medicina più prossima e di presidi sanitari sicuri per tutte e tutti, realizzabili solo attraverso scelte politiche lontane dalle logiche aziendali e finalizzate al bene comune.

Inoltre, ci troviamo di fronte alla donna, a un’esperienza che coinvolge principalmente lei e che di conseguenza nella società odierna appare meno interessante di altre e viene relegata alla sfera dell’intimo, per comodità e convenienza forse, in nome di un concetto di “natura” che ci si dimentica esser stato creato culturalmente (come tutto ciò che nominiamo e a cui diamo un significato. La natura “si limita” ad esistere, non si descrive). 

La mia fioca speranza è che la bagarre che si è scatenata negli ultimi giorni aiuti almeno ad approfondire il tema del post partum, tolga allo stesso il velo del tabù e ci consenta di guardare più chiaramente all’importanza di quel che una madre è chiamata a compiere, perché è dal suo benessere e da quello del personale che le gravita attorno che dipende la prima felicità di – per dirla con Brunori SaS – “quelli che arriveranno”.

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COVID-19

“Tenerci negli occhi: uno a uno, una a una. Come salvare il nome proprio di ognuno.”

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M.

Se dovessi definire l’Africa con un senso tra i 5 a nostra disposizione, direi che per me è il tatto. L’Africa è il tatto: è la mano bambina e nera che ti sfiora un neo, incerta se provare a strappartelo o giocarci, comprendendo che alcune cose, forse, non si possono staccare malgrado la loro apparenza da palline di pongo. Non tutto è come l’extension per capelli di così tipica applicazione per le donne di quelle zone. L’Africa è quella stessa mano che mi tira sghignazzando il naso, perché così lungo è qualcosa di mai visto prima; un’escrescenza di carne nuova, come vergine è il contatto con un bacino bianco e rigido, manco avesse incastrato un osso in più.

Durante l’estate appena trascorsa ho partecipato a una vacanza solidale promossa dall’organizzazione laica e indipendente Humana People to People, ma in questo scritto non è mio intento descrivere dettagliatamente gli splendidi ed efficaci progetti nei quali ho avuto la fortuna di immergermi (per quello, suggerisco il sito: https://www.humanaitalia.org/), né enumerare le forti contraddizioni che ho incontrato in quel continente, o ciò che lì manca, in termini di servizi, infrastrutture e possibilità (lascio agli esperti questa straziante analisi). Nelle righe a seguire intendo comunicarvi le suggestioni positive generate dal mio incontro con quella terra rossa, affermando sin da ora che questo articolo è totalmente personale, parziale e volutamente inteso a trasmettere soltanto l’aspetto lucente, di luce, assorbito laggiù.

Era la mia prima volta nell’Africa del Sud, e più precisamente in Mozambico, a Muzuane, piccola località nei pressi della città portuale di Nacala che sorge in provincia di Nampula, nel nord del Paese, e che si affaccia sull’Oceano Indiano. Lì ho avuto modo di visitare e di affiancare i locali in alcune attività promosse dall’associazione e consorella locale di Humana, chiamata ADPP-Moçambique (Ajuda de Desenvolvimento de Povo para Povo).

In questo contesto, tra tinteggiature di asili costruiti da ADPP per la crescita culturale del Paese, visite agli orti coltivati per il sostentamento e l’autofinanziamento dei progetti in essere, gite alle piantagioni di anacardi per lo sviluppo dell’imprenditoria locale, fruizione di spettacoli volti alla sensibilizzazione sul tema delle spose bambine (ricordo che il matrimonio precoce è stato definito illegale dal Parlamento mozambicano soltanto il 15 luglio di quest’anno), prima e più di offrire sostegno ai mozambicani e al loro lavoro, sono stata io a ricevere. Un bacio in fronte, per fare un esempio, il più forte, fra tutti. Una manifestazione d’affetto ricevuta da una tra le centinaia di bambine che quotidianamente, a piedi e spesso senza scarpe, macina kilometri per raggiungere dalla baracca in cui vive la scuola. Questo contatto umano e inaspettato (di solito sono gli “akuña”, come vengono chiamati gli europei in lingua makua, a riempire d’effusioni i meravigliosi piccoletti che si lanciano in sorrisi, abbracci e saluti festosi) mi ha portata ad un cambio di prospettiva, ad un rovesciamento di punti vista tante volte teorizzato, ma non sempre colto nella sua totale pienezza di senso. Quel bacio è stata un’epifania, per me. Un augurio, un cioccolatino di stelle, una spremuta di speranza ed energia, racchiusa tra due piccole labbra. Di solito siamo “noi” a prenderci cura di “loro”. O così sembra. In quel gesto tanto spontaneo quanto inatteso, invece, ho realizzato come possa essere l’Africa a lenire l’Europa, l’infanzia, l’età adulta. Bukowski scrisse: “Ho visto persone a pezzi aiutare chi aveva solo una crepa”. Ecco, quel bacio è stato una fisica presa di consapevolezza di questa citazione.

Sovente si riflette sulla ricchezza che gli immigrati, se accolti e supportati adeguatamente, avrebbero nel Paese d’arrivo, dove spesso sono forza lavoro, contribuenti, impegnati in mansioni che – fuor di retorica – gli autoctoni non svolgono più. Eppure, troppo poco, secondo me, si ragiona sul fatto che può capitare che culture altre rispetto alla nostra potrebbero condurci a riflettere su usi e costumi mai approcciati o abbandonati da tempo e che probabilmente, se praticati, sarebbero in grado di ricondurci alla nostra essenzialità, al nostro nocciolo.

In Mozambico, dove il settimo mese dell’anno è inverno, il sole cala alle cinque e mezza del pomeriggio, manca l’acqua calda, e la finitezza dell’energia elettrica è tangibile, mi sono riscoperta a ballare attorno ad un fuoco perché altro da fare non c’era e, come canta il mio amato Vasco Brondi, ad “accettare la vita come una festa, come ho visto in certi posti dell’Africa”. Ho realizzato con l’esperienza corporea che autenticamente, in alcune occasioni, si possa “fare di più con meno”, stare meglio nella semplicità. E’ l’abbondanza di proposte tipica del turbocapitalismo che spesso genera confusione, disorientando e non fornendo sufficienti strumenti di approfondimento ed analisi delle sue proposte, inafferrabili, inoltre, per i più. E’ il turbocapitalismo che ha il potere di allontanare dall’obbiettivo e dal sogno che all’inizio del percorso si intendeva trasformare in progetto.

E’ stato un pomeriggio, vivendo un tempo d’attesa a cui non sono più abituata (poiché perfettamente integrata nel nostro seguire le lancette dell’orologio e nella nostra programmazione al secondo), che , osservando l’Oceano Indiano e il suo non esser stato ancora deturpato da impianti balneari, ho colto il senso profondo delle parole di Majakovskij: “Non vale la pena di citare / le offese / i dolori / e i torti reciproci. / Guarda com’è pacifico il mondo. / La notte / ha imposto al cielo / un tributo stellato. / È in ore come questa / che si sorge /e si parla ai secoli, / alla storia, / alla creazione.” Occorre infatti, pur conservando la capacità di discernimento circa il quando la lotta sia da dirsi conclusa (non si può mollare prima), per continuare a vincerla, tornare ad affrontare le battaglie con la schiena africana: dritta come un fuso, non inclinata verso il domani, altrimenti il secchio di acqua raccolta nel pozzo ed attentamente posizionato sulla testa non può evitare di cadere, rendendo vano lo sforzo della sua raccolta. Occorre stare piantati con la maestosità di un baobab nel “qui e ora”, che non corrisponde a un’assenza di prospettiva, ma alla piena coscienza che il futuro dipende anche o soprattutto da quanto radicati si sia nella propria quotidiana opportunità. Da cogliere e condividere.

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MUZUANE

Questa è l’immagine del mio Mozambico che porto nel cuore. La adoro, perché sono io a ricevere un bacio in fronte. Un augurio, un cioccolatino di stelle, una spremuta di speranza ed energia, racchiusa tra due piccole labbra. Di solito siamo “noi” a prenderci cura di “loro”. O così sembra. In questa fotografia, invece, si nota come sia l’Africa a lenire l’Europa, l’infanzia, l’età adulta. Bukowski scrisse: “Ho visto persone a pezzi aiutare chi aveva solo una crepa”. Ecco, credo che questo scatto lo testimoni.

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TETRAPAK

Camminava a zig zag, ma senza l’incedere barcollante che caratterizza una sbronza.
Misurava il ciottolato come in una danza ritmica, battente al pari della pioggia che quella sera il cielo pesante e i rumori poco rassicuranti tipici di un temporale imminente preannunciavano.

Anche le braccia, che parevano attaccate ai lati del corpo, a penzoloni, si muovevano avanti e indietro forsennatamente e con una precisione che sottendeva una passata professione legata al corpo, allo scatto, alla presa, allo slancio. O un presente fatto di furti, salti, fughe.

Lo vidi aprire con forza il bidone della plastica che giaceva fuori dal palazzo di fronte al mio, accanto alla citofoniera; proprio lì, dove ogni lunedì sera veniva esposto affinché la mattina seguente fosse svuotato nel camion dell’immondizia, ad accatastare rifiuti su rifiuti, vasetti di yogurt su contenitori vuoti di shampoo, insalate monodose e bottigliette di diversa grandezza.

Scoperchiò la pattumiera color giallo fluo con la foga con cui un bambino scarta il regalo del primo natale in cui la consapevolezza si è ormai sviluppata e consente di comprendere cosa stia per accadere.
Le sue mani iniziarono a frugare tra i resti delle vite degli altri e i miei piedi si fermarono a una decina di passi da lui, incapaci di proseguire, timorosi di venire afferrati al pari delle confezioni di riso vuote e scaraventati all’aria.

Respirava rumorosamente, si sentiva il suo inspirare ed espirare anche dalla mia posizione protetta, e talvolta imprecava con strani grugniti a confondere la lingua, a mascherare la provenienza.

A un certo punto la foga si placò, quando le dita afferrarono una piccola tanica azzurra. Vi infilò l’occhio e sorrise con il resto del volto. Chissà cos’era rimasto sul fondo, quale tesoro non fosse stato raschiato fino alla fine.

A quel punto si mise a svuotare il bidone della carta, senza realmente cercare qualcosa. Si capiva dalla disattenzione con cui vorticosamente gettava qua e là vecchi giornali, sacchetti di biscotti, fogli d’appunti; solo per dar ossigeno a un’irrefrenabile desiderio di rompere, disordinare, degradare. Nulla trattenne di quel gesto. Immaginai  potesse essere un esercizio di routine. Un’operazione da non dimenticare per non rimproverarsi a giornata ultimata di non aver cercato conforto ovunque anche in quei recipienti dove solitamente non si trovava niente. Infine si mise a frugare nel cestino a fianco del caseggiato, nella mia direzione, qualche centimetro più vicino alla mia figura, ora impietrita eppure tremante. Estrasse un mezzo mozzicone di sigaretta e se lo mise tra le labbra, meccanicamente. Lo accese con un accendino che dovette sbattere un paio di volte su e giù, prima di vedere la fiamma sbucare e fare il suo dovere.

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Non avevo più scampo. Ero obbligata a rincasare, Elsa sarebbe arrivata tra qualche minuto e non potevo non farmi trovare. Il saggio di pianoforte era programmato dopo pochi giorni e la ragazzina era da spronare a dare del suo meglio. Le abilità c’erano tutte, la costanza invece zoppicava, così come la motivazione. Ancora un paio di lezioni a disposizione e dalla buona riuscita dell’esibizione sarebbe dipeso il riconfermarmi o meno, a insegnante di lezioni provate della figlia del Sindaco. Quell’entrata mensile fissa e sostanziosa mi serviva. Per pagare le bollette, per restare nei giri giusti, per colmare una propensione al riscatto sociale che, a spada di Damocle, mi penzolava sulla testa dalla nascita.

Avevo paura. Quell’uomo mi ricordava fastidiosamente il balordo che nell’estate dei miei sedici anni mi aveva costretta – spalle al muro – a consegnargli le duecento lire che avevo in tasca: resto di un gelato rovinosamente crollato a terra, non appena mi fossi accorta – troppo tardi – di quali fossero le intenzioni del punk di periferia che ancora alle volte sogno, sdraiato e morto su un asfalto cocente.

Dovevo procedere, perché anche fossi stata ferma ora lo spazio che distanziava me e il losco figuro era minimo e una fuga chissà che reazioni avrebbe generato. Deglutii, respirai e decisi di evitare lo sguardo. Occhi bassi, contando mentalmente quanto mi dividesse dalla tana, pregando affinché qualcuno uscisse da uno tra i negozi che costellavano il vicolo nel quale ci trovavamo come Caino e Abele nel campo in cui si consumò il delitto, come due attori di uno scadente film Western, pronti a estrarre pistole, tra sangue e polvere. Elsa, Elsa e il suo affascinante padre sarebbero stati l’apparizione perfetta.

Non riuscii a non alzare gli occhi, contrariamente a quanto mi fossi prefissata di fare nella breve frazione di secondo in cui l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio sul panico. La curiosità, dicono sia femmina. Le mie pupille si bloccarono sugli iridi azzurri dello slavo che mi trovavo talmente vicino da poter toccare. Già, perché non poteva che essere cresciuto al freddo ed essersi asciugato e prosciugato qui, tra stazioni e panchine, dormitori e vetri rotti.

Non sono sicura del fatto che mi vide, perché una patina di furia gli ricopriva gli occhi, però gli stessi si posarono su di me. Durò un attimo, quello specchiarsi di diversità. E poi aprì e chiuse la mandibola di scatto, rapido, come a mordere un panino soffice, volutamente intenzionato a farmi sobbalzare, a riportare linfa in questo mio corpo quasi inerme, che poteva dirsi vivo solo per il brivido lungo la schiena e il sudore freddo che formicolava tra le scapole.

I suoi denti c’erano tutti e non parevano ammalorati. Come un cavallo, l’uomo dell’Est racchiudeva lì la forza. Me lo figurai, attaccato con gli incisivi a un nastro isolante.

«Paura, eh?», fu quello che disse, mentre ridente si allontanò, fischiettando amaro, buttando a terra la sigaretta succhiata fino al filtro, quasi a volerne aspirare l’esistenza di chi l’aveva comprata e lasciata a metà, magari per salire le scale e raggiungere la felicità, forse per noia, probabilmente per possibilità.

Elsa sbucò da una viuzza perpendicolare alla strettoia nella quale abitavo. Mano nella mano col papà, procedevano dritti, impeccabili, puntuali. «Tutto bene, Fede? Hai una faccia..» brutale; con la sincerità tipica degli acerbi e degli inscalfibili, poiché levigati dalla loro esistenza a tal punto da giudicarsi autorizzati a prendersi beffo di quella altrui.

Prima di risponderle mi voltai, e vidi di spalle le ossa vestite dell’uomo col cappuccio che incedeva verso l’abisso, noncurante e sprezzante di ogni cosa attorno. Non c’era il tempo di chiedermi che cosa temessi. Mi toccai il ventre vuoto, senza una conscia motivazione e lì capii che oltre al non voler mettere a repentaglio la mia incolumità, altro e a strati più profondi pulsava nelle tempie: invidia per quell’invincibilità e quel fegato propri di chi procede in diagonale lungo il mondo.

Mi soffermai su Elsa, con la netta sensazione che non ce l’avrebbe mai fatta. E io con lei. Ci mancava il nerbo, l’uscire dagli schemi, lo slancio, il frugare nelle viscere. «Sì, tutto bene, grazie cara. Ora entriamo in casa a prepararci.» Salutai il genitore, una stretta di mano e chiusi dietro di me la porta che mi separava dagli imprevisti.

Diedi due giri di chiave e le lasciai nella serratura.

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© Copyright 2018 Elisa Denti – photographs
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Presentazione progetto “DAY1” di Max Cavallari

Un progetto, quello di Max Cavallari (www.maxcavallariph.com), che per volere della stessa vita, del suo travolgerci e stravolgerci, assume un significato ancora più intenso e una forza ancor più marcata proprio per la sua incompletezza.
La scomparsa di Lionella, infatti, col fare beffardo della sua malattia, ha impedito all’artista di procedere nella documentazione dei processi e progressi dell’Alzheimer e ha prodotto nel fruitore dell’opera quella condizione di spaesamento propria della sindrome visivamente narrata.

Il lavoro video/audio qui proposto, è caratterizzato dal tono di voce squillante di Lionella, in ossimoro con le inflessioni d’accento della figlia, stanca eppure energica, disposta ad un nuovo e misterioso incontro con i giorni a venire della madre. La fragorosa risata di Antonella, spontanea e coinvolgente, è appunto testimonianza non di rassegnazione, piuttosto di accettazione di un presente nel quale i ruoli si invertono, e da accudita dovrà essere accudente.

Le immagini, nel loro susseguirsi lento, accompagnate da una musica che ha il potere di calmare e inquietare al contempo, sono vivide sino al termine del progetto, quando una leggera foschia sfuma una foto di famiglia: metafora del venir meno di punti fissi e del moltiplicarsi di quelli interrogativi.
“Dove sei?”, pare il mantra del lavoro di Cavallari, perché questa è la domanda ripetuta della nonna e questo è anche quanto si chiede chi la circonda, forse ad eccezione della cagnolina, fedele compagna a cui basta che la padrona ci sia e i cui occhi, a bucare la scena per tutto il secondo minuto di “Day 1”, paiono un ammonimento all’umano che la osserva da oltre lo schermo.  Ad oggi non si è ancora stati in grado di dare degne risposte sociali sia per l’accudimento di chi è affetto dalla sindrome d’Alzheimer, sia per il sostegno psicologico e morale a coloro che gravitano attorno al malato.

Se il dolore spesso divide, la malattia spesso si teme.  Eppure questo non accade per “Day 1”, progetto in cui, pur senza far perdere dignità al paziente, viene mostrato e detto allo spettatore anche quanto sarebbe più facile e popolare nascondere, fingendo un’ipocrito rispetto del pudore. Questo poiché l’esigenza, la motivazione stessa della nascita del lavoro, era quella di mostrare la fragilità della condizione a cui la malattia conduce e la necessità di un’assistenza costante e morbida.

E’ attraverso i simboli che Max Cavallari ci porta a riflettere scevro di qualunque fastidiosa retorica. L’orologio ad indicare un tempo andato ed un altro indefinito ad arrivare, la fede ad eco di legami indissolubili ed eterni, le protesi e gli ausili, assieme con i contenitori delle pastiglie, a trasmettere speranza: nella scienza e nella vicinanza di cui si è stati capaci, ma in cui occorre un maggiore impegno.

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© Copyright 2018 Paola Vailati
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(S)CONFINARE – mostra fotografica di Angelo Valenzano (2018)*

“Tutti i confini sono labili, fragili e porosi”
Zygmunt Bauman
 

Dopo la mostra “(S)guardo” , con “(S)confinare” Angelo pone il suo occhio attento nella direzione dei confini, delle linee che li indicano e il cui mutamento è da sempre in balia delle situazioni economiche, politiche e sociali; delle paure e dei sogni.

Oggi quel che caratterizza la frontiera è uno scardinamento delle istituzioni (statali e morali, interiori e mondiali) e trovandoci di fronte a questa trasformazione di certezze non resta che esercitarci ad una ‘politica del confine’, come la definisce Mezzadra, inventando nuove forme di convivenza e alt(r)e visioni d’orizzonti, dove alla barriera invalicabile fa eco un ponte e dove se i limiti non potranno essere aboliti, almeno si potrà cercare di creare spazi per incontri, attraversamenti; per consentire libertà di movimento e limitare i massacri.

Il fotografo trasmette questa intenzione nei suoi scatti grazie al blu acceso che delimita una grata, al muro verde che evidenzia il finire di un muro, al cielo che fa capolino ed ossigena oltre un confine. Il colore come simbolo d’allerta, come finestra di riflessione su quanto pare fisso, ma che in realtà è geopoliticamente mobile.

Riprendendo una frase di Lennard Choen – cara all’artista che già l’ha citata per presentare un suo lavoro dedicato alle porte – ‘There is a crack in everything / That’s how the light gets in.’ E la luce dunque, in ogni immagine di (S)confinare, tenta di dare vita alla ‘regione intermedia’pensata da Rod Serling, in cui l’immaginazione del fruitore della mostra può immergersi e riflettere sul senso delle de_limitazioni, sul loro essere ordine o ostacolo, e su cosa potrebbe generare una loro mancanza.

“Il viale della metamorfosi” ben rende quanto ‘liquido’ (per dirla con Musarò e Bauman) sia il confine, al pari della nostra idea dello stesso.
Una rete serve per arrampicarsi e scavalcare un muro, oppure per rinforzarlo? I tasselli mancanti in un mosaico significano che lo si sta smantellando, o costruendo?

(S)confinare non dà risposte, ma pone domande, al pari di qualunque buon libro, al pari di qualunque quadro ben riuscito.

Ancora una volta Angelo Valenzano con le sue immagini interroga chi le osserva su un grande tema esistenziale: la necessità di protezione contrapposta a quella dello spostamento; entrambe pulsioni umane con le quali occorre fare i conti, durante un racconto di viaggio lungo un’esistenza.

© Copyright 2018 Paola Vailati
* L’allestimento della mostra è stato curato da Lucia Ghidoni

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(S)GUARDO – mostra fotografica di Angelo Valenzano (2018)*

“Il compito dell’arte è rendere visibile l’invisibile.”
Franco Fontana

Un telefono cellulare “buono quanto basta” e una gran voglia di riempirsi gli occhi di bellezza. Questi i due compagni di viaggio con i quali Angelo Valenzano (www.instagram.com/angelino64), a distanza di diversi anni dalla nascita della sua passione per la fotografia, ha scelto di ritornare ad ascoltare i richiami di quel che ci circonda.

Portoni chiusi in ossimoro con negozi aperti, muri scrostati e ruggine fresca, linee precise e direzioni da seguire. Crema e dintorni hanno ipnotizzato l’occhio del fotografo e l’hanno condotto alla ricerca seriale di uno stesso dettaglio, per ascoltarci dentro l’eco di “un tempo andato” a cui fare ritorno, senza nostalgia, ma piuttosto con il desiderio di rimetterlo al centro, in forma nuova ed accesa.

Angelo attraverso i suoi scatti racconta di luoghi – come li chiama lui – “ammalorati” e ne riproduce le geometrie, le logiche che si insinuano nella rigorosità di due mattoni vicini, la perfezione con cui pale di un mulino che sembrano ancora roteare hanno avuto un motivo d’essere che ci viene suggerito di riprendere ed approfondire.

Queste immagini sono l’espressione di un linguaggio rivelatore, capace di evocare l’equilibrio in ogni sua forma; che sia pura trasformazione di materia in disegni astratti – come nel caso della ruggine – o che si trovi nei colori, nelle ombre, nei riflessi dell’architettura urbana scoperti e valorizzati. Per dirla con Franco Fontana, ogni fotografia è “pensata” e ambisce alla ricerca di un senso d’armonia, enfatizzando particolari e smascherando incanto nella sua essenza più intima.

In queste fotografie non ci sono figure umane, ma le stesse sono comunque presenti in ogni immagine. L’essere umano infatti c’è, con il suo evocato vociare, con il suo scrivere lettere e lasciare le chiavi nella porta di casa, forse proprio per farci entrare l’occhio del fotografo e consentirgli di conoscere nuovi dettagli.

La mostra non lascia alcun senso di decadenza nel fruitore, anche se è piena d’ossidazione. Questo perché nei suoi scatti non manca mai la luce o la natura, che fa capolino qua&là, così come sono i colori a risultare dominanti, per ricondurci al vivere quotidiano e farcene apprezzare il senso.

(S)guardo è da assaporare con passi lenti e una vista attenta: la stessa di Angelo, il cui sguardo – appunto – ha roteato da muri a cielo, da cielo a strada, per poi assottigliarsi nel riuscito tentativo di osservare oltre e suggerisci che tutto ciò che si vede è un simbolo, e in quanto tale implica sempre anche altri e più profondi livelli di significato.

(S)guardo è un’esperienza condivisa prima ed oltre una mostra, perché il fotografo con il suo captare linee, superfici, “geografie invisibili” ci invita a posare anche il nostro, di occhio, su tutto lo splendore che abitiamo ogni giorno e che non dovrebbe distrattamente sfuggirci.

© Copyright 2018 Paola Vailati
* L’allestimento della mostra è stato curato da Lucia Ghidoni

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JOURNEY – mostra personale di Margherita Martinelli (2016)

E’ una perfezione calda, quella che si percepisce entrando in contatto con le opere di Margherita Martinelli (www.margheritamartinelli.it).

Per lei dedicarsi all’arte concettuale e’ stato “automatico”, parte di un percorso in itinere.
Margherita ha da subito desiderato rendere la passione per l’atto creativo la sua professione, e la scelta di indirizzarsi verso Decorazione, nei suoi anni di formazione all’Accademia Belle Arti di Brera, le ha concesso di sviluppare la sua arte mescolando tra loro caratteristiche della pittura, della progettazione di un’installazione, e della scultura, creando così uno stile proprio, profondo, ricco di sfaccettature e subito riconoscibile.

Le idee delle opere di Margherita nascono a seguito di una ricerca artistico-simbolica, ed alimentano la ricerca stessa. La progettazione di una tela segue la metodologia dell’arte concettuale, “la pittura viene dopo”.
Nell’atto creativo, Margherita parte da esperienze personali “da un’esigenza” e riesce a rendere l’impulso di ampio respiro grazie ai collegamenti che fa con ciò che succede oltre lo specchio, raccogliendo stimoli dalla realtà artistica contemporanea, così come dai fatti con cui l’umanità viene a confrontarsi. L’ispirazione, però, non e’ un’intuizione folgorante, od una fortunata casualità. Le tele di Margherita sono il risultato di una costanza e di una determinazione che impongono di lavorare, studiare, aggiornarsi, produrre sempre. La ricerca e’ costante e mi conferma che: “ogni allontanamento e’ un ritorno, ed acquista il suo senso artistico. Dipingere e’ parte di me, non posso allontanarmene nemmeno quando non lo sto facendo.”

Le opere di Margherita hanno il loro fulcro in ciò che lei definisce un’esigenza. Nel suo percorso creativo, durante gli anni, ha trovato diversi elementi, ed ognuno di essi è stato, per un certo periodo, ripetuto quasi ossessivamente sulla tela. La ripetizione è la terapia volta a curare l’esigenza, a svuotare l’ossessione per quel bisogno conoscitivo di un mondo interiore che ha portato l’autrice a svilupparlo, ad approfondirlo finché l’elemento, il suo simbolo, si è svuotato di significato.

“La scrittura nei miei quadri” mi dice Margherita “non e’ decorazione. Le opere partono da lì”, a prova del fatto che il dipingere e’ un’azione “secondaria” alla nascita dell’idea creativa. I titoli stessi delle serie di opere focalizzate sulla ricerca di un simbolo non sono mai stati improvvisati, ma il risultato del collegare tra loro i diversi lavori che hanno visto il sorgere e lo svuotamento di un’esigenza.
Annegamilegami, Indoss:ami, Abit:ami, Di:stanze, Respir:ami sono alcune tra le serie di tele, in cui l’ugual desinenza testimonia una continuità del percorso creativo, che in Margherita e’ fluido, non caratterizzato da un cambio di rotta, ma da un proseguo, ‘automatico’ appunto, dove lo stile inconfondibile resta, e si trasforma con l’evoluzione spontanea della realtà interiore dell’artista.

Questo, allo sguardo del fruitore, rende affascinanti le opere di Margherita, che risultano avvicinabili grazie alla possibilità di essere interpretate liberamente, di sentire il richiamo tra la propria vita e quella dell’autrice attraverso l’interpretazione di alcune tra le frasi utilizzate dall’artista nelle sue opere.

Con Journey il percorso prosegue e Margherita pare abbandonare l’abbondanza di simboli e lasciare spazi infiniti ed immensi sulla tela. Troviamo fiori e respiri, cieli e prati nei quali cercarsi come per gioco.
Distese pennellate e colori quasi liquidi, rasserenati e rasserenanti. Solo la sera, talvolta, pare portare buio, ma un buio di riflessione, un buio spesso, non preoccupante troppo a lungo. La necessità di controllo e di dare un nome, di segnare un orizzonte marcato svanisce, per lasciare senza paura spazio al fluire del tempo. Forse dopo le tempeste il profumo della pioggia basta per stare meglio.

La perfezione calda consiste proprio in questo: i lavori di Margherita Martinelli sono impeccabilmente umani.

© Copyright 2016 Paola Vailati 

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IL FADO

© Copyright 2018 Elisa Denti

Armando si guardò dritto negli occhi riflessi dentro lo specchio dello scadente b&b portoghese prenotato di fretta; non aveva mai tempo per ponderare le sue decisioni. Forse, a  41 anni, sarebbe invece iniziato a diventare conveniente farlo. Se non altro per i dolori di schiena che, dopo una sola notte su quel letto di fortuna, già sentiva e che si sarebbero trascinati per un po’.

Un tempo, il rumore della movida e il ronzio delle zanzare, assieme con il loro mordicchiare, non sarebbero stati un gran disagio. Sarebbero bastate poche ore di sonno e l’alcol trangugiato avrebbe attutito i suoni, quando addirittura non annullati. Ora non era più così. La testa faceva male per i bagordi altrui.

Uscendo dal bagno in condivisione incappò in una nordica sulla cinquantina, grassoccia e serena. Si chiese quale fosse il segreto di tanta freschezza e questa domanda restò a vagare nell’aria, come il fumo della sigaretta che si sarebbe fumato di lì a poco, decidendosi sul come ingannare il tempo, in attesa dell’orario in cui s’erano dati appuntamento lui e João.

Non tornava a Porto da 17 lunghissimi anni. Quella città gli costava fatica, gli rinfacciava i progetti non realizzati e, a dire il vero, nemmeno troppo perseguiti. “Porto addosso le ferite di tutte le battaglie che ho evitato.” Lo scrisse Pessoa e glielo ricordava la Livraria Lello, con il suo stile liberty gotico, dove un tempo sognava di firmare copie dei suoi manoscritti e oggi non aveva più nemmeno la pazienza di mettersi in coda per rivederne gli interni, essendo la libreria ormai imperdibile meta d’attrazione turistica. Glielo ricordava il Ponte de Dom Luiz I, dal cui piano inferiore più volte s’era gettato nel Douro, per impressionare le ragazze, i passanti e alle volte con João anche più semplicemente per rischiarla tutta, per sentirsi non solo belli, ma anche immortali.

In questo momento lo stava attraversando, quel suo ponte, un piede davanti all’altro e nemmeno in velocità. Si scoprì tuttavia provare lo stesso una vertigine, guardando giù, guardando dal primo piano del Luiz I l’acqua che correva quasi avesse caldo anche lei, quasi volesse raggiungere l’oceano. “Ma chi diamine me l’ha fatto fare…”, disse fra sé e sé. Infatti la risposta era tremendamente chiara: l’inevitabilità di liberarsi da quella promessa.

Mentre i gabbiani garrivano senza tregua, raggiunse Vila Nova de Gaia: era ancora relativamente presto per iniziare a girar le cantine come fosse un visitatore della prima ora. Scelse quindi di arrampicarsi fino alla Serra do Pilar, e di ammirare da lì Cais da Ribeira, che, anche 17 anni dopo, regalava ancora grandi emozioni, con la sua indolenza, con il suo somigliare a un gatto: sornione e bastardo, ipnotico e ruffiano.

Si accese la terza sigaretta dalla sveglia, ragionando su quanto aspirasse per proteggersi dall’ansia. Pensò a Carolina, l’unica dei suoi incontri che non si era mai espressa al riguardo del suo tabagismo, e gli si formò un’espressone affettuosa in volto. Sicuramente, in quel momento, sarà stata per le strade a ridosso della città, a cercare cani abbandonati.
Sempre eroina delle cause perse, lei. Perennemente impegnata a cambiare qualcosa che sarebbe potuto funzionare meglio, a salvare vite, innaffiare fiori, concimare piante. Carolina, col suo vestito viola, i suoi capelli legati male e il suo sorriso radioattivo. Sempre serena, lei. Sempre accomodante, generosa, gentile.
Chissà se un giorno avrebbe sparato a un bambino, fingendo di mirare a un piccione. Chissà se avrebbe urlato fuori tutto quanto certamente covava nell’anima; già, l’anima: quel soffio vitale racchiuso tra le sue due braccia muscolose perennemente abbronzate e il suo paio di gambe tozze, ma sensuali.
Armando era certo che tutto quel suo affaccendarsi celasse la paura di scoppiare, che Carolina non voleva permettersi e bruciava nel movimento. Terrore di esplodere, lasciando tutti sorpresi, o forse nemmeno troppo, perché prima o poi anche le persone buone hanno un crollo, si sa. Si sa anche che è in quei momenti che tutti gli altri devono provare veramente timore, forse per la prima volta, perché se hanno un crollo le persone sempre presenti, quelle date per scontate, significa che ci si deve rimboccare le maniche e sostituirle.
Armando non osava immaginare se fosse deflagrata Carolina cosa sarebbe successo in paese, dove per un motivo o per l’altro erano tanti quelli a dipendere dalla sua energia. Non gli aveva mai posto un rimprovero, quella donna con la faccia da ragazzina. Era indiscutibilmente lì, con la sua risata fragorosa a ogni ritorno.
Mai una domanda. Mai un “dove sei stato?”, mai.
Eppure non pareva vittima, succube e, soprattutto, non sembrava scema o accondiscendente. Non pareva nemmeno amarlo. Anzi, certamente non l’amava. L’ascoltava, senza rendere chiaro quel che cercasse in lui.
Cosa voleva, in fondo, Carolina? Nemmeno pareva divertirsi particolarmente, nelle loro serate. Se ne stava lì, seduta sulla sedia di legno, con il vino rosso in una mano, a toccarsi i piedi con l’altra, ad aspettare il momento che il rituale e l’amplesso accadessero, per poi invitarlo all’uscita. Forse lo vedeva come l’ennesimo cane da salvare o forse, come affermava lei: “Di cuore, Armando, ne abbiamo solo uno. E il mio è come un orologio. M’è caduto un paio di volte. Ora batte, come le lancette che continuano a ticchettare a vuoto, ma non funziona più”.

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Chissà, forse Carolina aveva meno bisogno di lui di quanto lui ne avesse di lei, e anche questo, mentre per un’associazione di idee data dagli orologi gli tornò in mente quello splendido della stazione Sao Bento, gli provocò una strana fitta e lo obbligò ad accendersi un’altra sigaretta. Professava di vivere alla giornata, ma gli scocciava incontrare i suoi simili, perché avere un valore per qualcuno che andasse oltre il piacere squisitamente e unicamente edonistico gli ricordava la sua infanzia e quei legami indissolubili che porta con sé, quando si è fortunati. E lui sì, lo era stato.

Ora il sole batteva caldo sul marmo e così Armando decise di alzarsi e di dirigersi verso Palacio de Cristal. Avrebbe proseguito nel cammino, non aveva intenzione di avvalersi di mezzi pubblici. Voleva assaporare tutta la saudade, anche perché dopo l’incontro con João avrebbe preso il primo aereo e via, di nuovo nella frenesia di quel che è urgente, ma non importante. Ancora poche ore dal sapore dolce amaro. Quel viaggio era stato inevitabile, gli faceva male, ma ora che ci ballava dentro non aveva altro desiderio se non quello di farsi male fino in fondo con la malinconia.
Un po’ come quando si ordina un piatto di baccalà fritto che non finisce più, ma devi mangiarne ogni patata unta del contorno, perché qualcosa dentro di te ti indica che non puoi sottrarti, altrimenti sceglievi un’insalata sin da principio.
La sua bulimia esistenziale e intimista in questo istante stava avendo la meglio, e sui gradini di Se Catedral decise di fare un’altra pausa, che pareva un ossimoro, ma in realtà era un altro fare spazio al pensiero: doloroso e incombente.

La mente ritornò a quando in quel posto, osservando i tetti di tutta Porto, aspettava João, sempre senza la certezza che sarebbe arrivato. João era il più anarchico, dei due. Il più deciso, quello che non si abbandonava ad alcol o fumo, che definiva oppio dei popoli moderni e che non si lasciava andare nemmeno al sesso occasionale. Sorrise, immaginando una discussione politica tra João e Carolina. Lui granitico, contrario alle mediazioni. Lui, che scavalcava i cancelli del CAR di Bobadela e si faceva incatenare, sperando che queste fossero azioni in grado di risvegliare le coscienze sopite di chi si professava per un altro tipo di immigrazione, ma non ostacolava con la propria carne il macello del sistema esistente. Lei, che metteva in discussione anche i cucchiaini di sale da buttare nell’acqua per la pasta, che organizzava assemblee condominiali pure per decidere il colore delle cassette per la posta. Così diversi, eppure in fondo più simili tra loro che con lui.
Si passò la mano destra sul mento rasato male e rifletté sul fatto che ciò che li accomunava distanziandoli da lui fosse un’attitudine di non resa nei confronti della vita. João prendeva porte a spallate, Carolina tentava di infilare la sua chiave in ogni foro del legno, benché potesse non avere la minima sembianza d’una serratura, e Armando invece nulla. Restava lì, davanti alla porta chiusa, a rammaricarsi del fatto che non fosse aperta, ma non tentava più di modificare lo status quo. Non quello mondiale. Non quello nazionale. Non quello della sua camera da letto.
Incapace di star solo, si circondava ciclicamente di soggetti da invidiare, o di qualche donna adorante, giusto il tempo per non sentire quel morso, per non provare anche di giorno quell’angoscia che l’attanagliava la notte.

Sentì le campane suonare e decise che era ora di proseguire per Palacio de Cristal, anche perché avrebbe voluto “prenderla larga”, sfiancarsi un po’, per non rischiare di cedere all’emozione nel rivedere l’amico; voleva stancarsi al punto da vivere l’istante in maniera meno intensa. João magari non sarebbe comparso, ma se fosse stato presente, certamente non avrebbe tardato di un secondo. O tutto o niente. E rigorosamente vestito di nero.

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Scelse di attraversare Rua Santa Catarina, per stordirsi col chiasso dei negozi e con la voracità dei consumisti, dei turisti, di tutti quelli che tra un azulejos e un bikini firmato avrebbero posto la loro attenzione sulla seconda attrattiva.
Lo scelse per quel bisogno molto radical di sentirsi almeno migliore di qualcuno, secondo la sua personalissima scala di valori. Non venne deluso, e anzi tutte quelle vetrine con CristianoRonaldo ritratto in qualunque forma e posizione lo fecero sentire immaginariamente parte di un élite intellettuale e attivamente critica sui giornali, per quanto da anni la sua unica occupazione fosse quella di svolgere lavoretti occasionali e sicuramente non impegnati, forte dell’eredità immeritata lasciatagli dalla sorella di sua madre.
Faceva marchette, scriveva pezzi promozionali per una ditta di sughi in scatola ogni qual volta la stessa riuscisse ad avere l’intuizione di mescolare la salsa di pomodoro con qualcosa di nuovo; il che accadeva un paio di volte l’anno, nei periodi di massima creatività.
Si trascinava così da una pseudo relazione sentimentale all’altra, da un bar all’altro. Senza impegno. Senza un piano. Senza nemmeno grossi argomenti da discutere con gli altri, che lo ridussero lentamente in uno stato di totale autonomia e indipendenza, disumanizzandolo non poco.

Quando la vita ti presenta svariate possibilità, grazie allo sviluppo tecnologico dell’epoca, ai soldi e a una bellezza congenita, perché progettare? Perché limitarsi da soli le infinite possibilità? In nome di quale impegno, di quale scopo, di quale senso? Non era forse falsa la speranza di incidere in qualche modo sulla vita degli altri, e pure sulla propria, essendo così schiacciati da un ingranaggio malsano e più grande detto “sistema”, dal quale era necessario in qualche modo salvarsi o sopravvivere, non potendolo modificare?
Mentre si poneva queste domande Armando arrivò alla destinazione prestabilita per l’appuntamento con l’amico dei tempi dell’università.

Eccolo lì, all’ingresso del parco, con alle spalle il cartellone pubblicitario del festival jazz che si sarebbe tenuto di lì a poco in città. 17 anni. 17 lunghissimi anni dividevano l’immagine di un João coi capelli folti e rossi, orecchini d’argento a cerchio a entrambi i lobi e il João di quel giorno, completamente rasato a causa di un’evidente calvizie e con di rossa solo una lunghissima barba, in antitesi con la testa pelata.
Eccolo lì, con l’occhialino tondo da intellettuale, una maglietta nera a maniche corte e un paio di jeans dello stesso colore. Sempre nero, e solo leggermente più elegante dei tempi in cui, per loro, il Douro era gestibile come una boccia d’acqua per pesci rossi.

Si guardarono negli occhi. C’era qualcosa che li tratteneva dall’abbracciarsi. Armando si domandava come lo trovasse João, che a lui pareva adulto, ma non diverso. João che aveva superato lo sturm und drang: si vedeva proprio dallo sguardo, il quale comunque conservava del fuoco, delle scintille, per quanto non inquiete, ma fisse e chiarissime.

Il compagno, a seguito di un momento di sorpresa a sua volta – cosa stava pensando? L’aveva forse deluso, con il suo aspetto stanco? – scoppiò in una risata sguaiata e lo abbracciò talmente forte da ricordagli che cosa l’avesse spinto in realtà fino a Porto: il desiderio di sentire che qualcosa resta, nonostante le crepe, nonostante la triste deriva, nonostante l’aver combinato nulla. Qualcosa di inspiegabile, di duro, di indissolubile. Qualcosa che è bello che non abbia un nome, perché così lo si lascia appartenere alla sfera del mistero, dell’inspiegabile, del divino.

“Allora?! Perdio, maledetto il mio italiano, dove sei finito in questi anni?”, disse João, con quel fare canzonatorio con cui guidava i cortei. “A marcire bene, direi”, rispose Armando abbassando lo sguardo, timoroso di rammaricare con qualsiasi affermazione l’amico, che nei suoi momenti di presenza, tra un’azione sovversiva e l’altra, non mancava mai di cercarlo, di invitarlo a un ritorno. “Spostiamoci da qui. Di pavoni che scorazzano nel parco ce ne sono abbastanza, i villeggianti non hanno bisogno anche del nostro, di ego smisurato. Ti porto in Vila Nova de Gaia. Ci facciamo qualche bicchiere, niente di che”, aggiunse sferrandogli un piccolo pugno nello stomaco.

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Armando non si azzardò a contraddirlo, perché come sempre João esercitava su di lui un gran fascino, e perché probabilmente un goccio di alcol in corpo gli avrebbe concesso di esprimersi con meno vergogna.

L’amico portoghese lo caricò sul retro del suo motorino. Armando lo abbracciò e affondò il naso nella sua schiena nerboruta, quasi a ricercarne l’odore conosciuto di una pelle spessa. Lo ritrovò, quell’odore selvatico mescolato alla fragranza di limone con cui lavava i suoi capi dai tempi della Comum.

Arrivarono alla loro cantina preferita. Ordinarono due porto bianchi e João come sempre lo affrontò di petto: “Quindi, me lo dici cosa sei venuto a fare a Porto?”, e rise forte, consapevole di averlo infamato venti minuti prima proprio per la sua prolungata assenza. Armando voleva rispondere la verità: “Sono venuto per sciogliere la promessa”, ma non lo fece. Sotto un certo punto di vista aver incontrato nuovamente l’amico di sempre gli aveva fatto provare vergogna anche solo per averlo pensato, che poteva mollare il progetto. Si rollò dunque una sigaretta e rispose: “Per ascoltare a che punto sei tu.”

João allora bevve alla goccia il liquore che restava nel bicchiere, posò lo stesso e guardò per un attimo il raggio di sole che colpiva il vetro, riflettendovi l’immagine di una Porto sognata, e quasi profumata d’arcobaleno ed uva.

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“Sono cambiato, Armando. Non voglio usare la parola cresciuto perché sai come la penso con le classificazioni e le idee di progresso, però ammetto di non aver più bisogno dell’adrenalina donchisciottiana. Degli amori platonici, della tragedia per sentirsi protagonisti almeno di qualcosa, della fama, delle rincorse senza fiato. Verso cosa, poi! Mi sono stancato. No, non guardarmi così. Non pensarlo nemmeno. Certe abitudini non variano, anche se si modifica il modo d’affrontare il contesto in cui esercitarle. Lo si osserva da terra, quel che succede, perché si è stremati sul pavimento, è inutile negarlo, è evidente a tutti. Non siamo stati capiti, non siamo riusciti a spiegarci, mettila come vuoi, ma abbiamo perso, anche se io le mani in alto non saprò mai alzarle”.
Mentre lo diceva, involontariamente si sollevò la manica sinistra della maglietta, dato che sentiva il bisogno di grattarsi, e Armando notò la cicatrice di quello scontro avvenuto al G8, quando ancora non si conoscevano e dove lui non era stato, ma che João gli raccontò più e più volte, aggiungendo che fu solo un caso fortuito che non avesse deciso di dormire alla Diaz.
“Sono diventato invincibile, Armando, nella mia sconfitta che ha le sembianze d’essere totale, ma che in realtà mi ha trasformato in una sorta di super eroe. Un po’ come accadde a Enzo nel film “lo chiamavano Jeeg Robot”, hai presente?”
E rise, come sua abitudine, quando non sapeva gestire le emozioni. “La vita ti rovina e non avendo più nessuna speranza da perdere, non avendo figli da abbracciare, mogli da rassicurare la sera, da invincibile il mondo mi fa meno paura e forse è la volta buona che qualcosa la rivoluziono, perché l’ho ammazzata, la paura” e mentre disse – ammazzata – girò le due mani in senso contrario l’una dall’altra, imitando il gesto con cui si tira il collo dei polli. “Non cerco più il consenso. Proseguo da lì – e indicò il pavimento – come una lucertola- verso il sole”.

Armando di contro tirò forte dalla sua sigaretta, che fu l’unica cosa che ammazzò, distruggendone il filtrino nel posacenere.
João aveva sempre costruito, anche se tendeva a sminuire il “fatto” in nome dell’immenso “da farsi”. Barricate, forme alternative del vivere, tavoli su cui imbandire cene per chiunque la pensasse severamente come lui.
João spendeva le estati a salvare i rifugiati che cadevano dalle loro barche nel disperato viaggio attraverso il Mediterraneo, sollevandoli con le braccia segnate. Carolina invece, con le sue abbronzate, raccoglieva cani; chi animali, chi uomini e Armando ebbe un brivido a pensare come si potesse essere arrivati a considerare bestie i nostri simili.

“Sono a questo punto qua, eppure il progetto non lo abbandono, Armando, non preoccuparti”, e mentre lo affermò ordinò un altro giro di porto e gli passò una mano sulla spalla.
“Piuttosto, tu te lo ricordi, cosa fosse il progetto, vero?”, e di nuovo sorrise. “Certo! La promessa di ritrovarci nel 2021 e partire insieme alla volta del Guatemala, per coltivare il caffè, insieme ai locali”.
João fece una smorfia “non esattamente, amico” e disse – amico – col suo fare ironico “insieme ai colleghi, mentre la sera scriverai i tuoi trattati, e io che non sono mai stato portato per le parole andrò sui monti a vedere se c’è dell’altro da fare.”
Strizzò l’occhio, per quanto più che uno scherzo, conoscendo João, questa suonasse come una minacciosa e ulteriore pianificazione.

Armando a quel punto si sentì stupido, preparandosi ormai l’ennesima sigaretta. Non c’era nulla da sciogliere e niente da abbandonare. Al 2021 mancavano pochi anni ed era certo che João, nel silenzio delle sue nottate solitarie, aveva già steso una mappa del tragitto, stilato un budget, immaginato un logo per la loro marca di caffè indipendente. Forse più che mollare c’era da ricominciare anche per lui, concluse.
“João”, disse con fare quasi imperativo, “dimmi”, ribatté l’altro. “Sono venuto qui per fare un tuffo. Sai, in Italia ci manca il mare…”

Brindarono in fretta con l’ultimo sorso rimasto nei rispettivi secondi bicchieri. Salirono rapidamente in sella a quello che João non avrebbe più potuto chiamare Ronzinante e arrivarono lì, al loro Dom Luiz I. Il portoghese si tolse rapidamente i vestiti, mostrando un corpo da statua Greca, a testimonianza che forse si trovasse meno a terra di quanto andasse millantando, e fosse in realtà ancora intento a fendere nebbia e oltrepassare inferriate. Armando invece si spogliò con meno irruenza, ma più che per pudicizia o imbarazzo, perché attento ad ascoltare quello che aveva ricominciato a farsi sentire, infrangibile come un sasso, all’altezza del diaframma. Non c’è niente da fare, pensò, qualcosa resta.

Senza vergogna alcuna prese la mano dell’amico, che non si fece problemi a stringergliela, perché ora come allora João aveva capito tutto, e ora come allora procedeva senza chiedere niente, ma fornendo all’altro tutto ciò di cui avesse bisogno. Salirono così legati sullo scorri mano del ponte, in piedi. Si guardarono e Armando vide un João ventenne e si immaginò da fuori di avere la stessa età. “Um, dois, três”, lo dissero insieme, di nuovo ora come allora. E poi più niente, se non un tonfo nell’acqua, profondo e bellissimo.

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© Copyright 2018 Paola Vailati – text
© Copyright 2018 Elisa Denti – photographs

 

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